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Pinocchio, opera al nero. Una birra con Zaches Teatro

 

Zaches Teatro. “Una birra con…” per raccontare Pinocchio

 

zaches pinocchio
Foto Ufficio Stampa

Nel piazzale antistante il Teatro Kismet OperA, un viavai di pullman porta e raccoglie classi intere di piccoli spettatori, coperti da minuscoli impermeabili colorati o raccolti sotto gli ombrelli delle maestre: nei pochi giorni del festival Maggio all’Infanzia 2014 la primavera sembra essersi presa una vacanza. L’aria è sempre quella piacevole e aperta dello splendido golfo, ma Bari è spazzata da un vento feroce e coperta da nuvole che cancellano le ombre di chiese e monumenti. Eppure il brontolio dei tuoni e lo scrosciare della pioggia sembrano un sottofondo perfetto per questa versione di Pinocchio immaginata dalla sempre sorprendente compagnia Zaches Teatro. Tra maschere che lasciano libera la bocca, luci perfettamente puntate, sbuffi di fumo denso da dietro le quinte, musica gotica e corpi che paiono saltati fuori da un sogno agitato, l’atmosfera è cupa e inquietante. Il teatro di figura e il teatro visuale di questo agguerrito ensemble toscano chiudono il popolare racconto di Carlo Collodi nei ritmi di un viaggio nero e movimentato, la cui fine architettura drammaturgica riesce a catturare i più piccoli come gli adulti, in un ottimo esempio di spettacolo per tutte le età. Dagli otto anni in su.

Zaches Teatro è un gruppo stabile dal 2007, formato da Luana Gramegna alla regia, alla coreografia e a volte in scena; Francesco Givone, scenografo, mascheraio, disegnatore luci; Stefano Ciardi, compositore e musicista ed Enrica Zampetti, attrice. Per questo progetto si è unita anche Alice De Marchi, nei panni di Pinocchio. Incontro il gruppo nei camerini del Kismet, un paio d’ore dopo la replica e subito prima che si rimettano in macchina alla volta di Firenze. Durante la pausa del pranzo le immagini si sono depositate e, complice l’ombra densa che avvolge Bari e il mare grosso di vento, resta la visione perturbata di un dormiveglia. La prima domanda, la più semplice, riguarda ovviamente l’uso delle maschere. Francesco mi racconta che c’è sempre stato in loro «un certo amore per il teatro di figura», ma che tutto ha avuto inizio partecipando al concorso Beckett and Puppets, che univa appunto il teatro di figura al drammaturgo irlandese. Il risultato, che fu One Reel, aveva rivelato l’utilità fondamentale della maschera «per entrare dentro il lavoro vero e proprio. Un medium che ha un ruolo importantissimo nell’annullare l’attore. È così che si può arrivare realmente a “lo spettacolo per lo spettacolo”, dove non c’è un attore che si mostra».
Diversi sono i linguaggi confluiti nel gruppo, Luana precisa che proprio quell’eterogeneità era la motivazione di fondo: dalla scenografia alla figura, dal live-electronics alla danza contemporanea fino alla biomeccanica di Nikolaj Karpov (al quale proprio questo Pinocchio è dedicato) e alla ricerca sonora e vocale, «cominciata con Enrica a partire da un laboratorio con Chiara Guidi sulla voce molecolare. Per questo abbiamo poi scelto, qui, di lavorare sul testo e inserirlo in una poetica».

Zaches Pinocchio
Foto Ufficio Stampa

L’unico altro lavoro dedicato ai bambini è stato, secondo Francesco, «un esperimento poco sincero, dettato da ragioni innanzitutto economiche. E però non avevamo lo spirito adatto, allora. A questo Andersen non abbiamo voluto bene ed esso, in cambio  non ha voluto bene a noi». «Questo lavoro lo fai per passione – riflette Luana – e abbiamo capito che la nostra non era nel teatro ragazzi fatto in quel modo»; anche perché l’esigenza era di staccarsi da quell’immaginario delle maschere – era nel frattempo esplosa anche Familie Flöz – e andare dunque più sul lavoro fisico e la danza. «C’era l’urgenza di indagare, capire che cosa significasse mischiare tutti questi linguaggi. Era ed è molto importante il soggetto, come nella Trilogia della Visione (Il fascino dell’idiozia, Malbianco e Lost in time), partendo da una dimensione di laboratorio». La stessa che ha dato vita anche a Pinocchio. Dopo un breve periodo di lavoro in un piccolo spazio autogestito, Zaches è andato avanti (come la maggior parte dei gruppi del contemporaneo) con il sistema delle residenze artistiche. Pinocchio parte nel 2013 con una versione russa commissionata e ospitata dal teatro di Ekaterinburg, con attori del luogo. «Un progetto simile, ma più ricco, con sei persone in scena. Tornati qui – raccontano Luana e Francesco – Pinocchio ci ha conquistati, facendoci superare quelle riserve che mai ce lo avrebbero fatto scegliere come materiale testuale. Riserve legate alla classica immagine che si ha del racconto di Collodi. Dentro c’era invece tutto il complesso delle tematiche e delle atmosfere sulle quali avevamo lavorato negli anni passati, tutte fruibili per i bambini».

Ecco centrato il punto, quella sensazione di vedere in scena un’operazione finalmente pulita riguardo alla modalità di trasmissione di un immaginario. Non lo spettacolo osceno (nel senso proprio etimologico) di qualcuno che tenti di sezionare l’infanzia come se si potesse davvero isolarla e ripercorrerla in scena da adulti, ma l’intuizione di vedere quella come una stagione della stessa vita, uno stadio di un’evoluzione dentro cui ancora ci troviamo. Nel Pinocchio di Zaches c’è questa sorprendente ed estrema esposizione di piani narrativi (e semiotici) sovrapposti: il senso di morte, di violenza, di ignoto che di fatto Collodi sintetizzava in immagini dentro un’epica completamente espressionista rivive nelle inquietanti scene perfettamente pensate ed eseguite, mettendo a disposizione dei bambini lo stesso materiale che gli adulti, inevitabilmente, vanno a cogliere con maggiore severità, mentre ai più piccoli è riservato un ragionamento visivo ed emotivo sottile e dinamico, non per questo superficiale.
Un esempio su tutti: l’assenza di Geppetto. Evitando di mostrarlo come il classico vecchietto maldestro e stakanovista sconfitto dalla miseria e col cuore sempre a rischio di spezzarsi sotto il peso delle cattive azioni della sua creatura prediletta, nella latenza la figura del padre si veste di un’ombra potenzialmente sinistra. Vediamo Pinocchio scivolare volta dopo volta nella tentazione di “fare il cattivo” ma, in assenza del buon esempio, la casa a cui non torna potrebbe essere una casa dove “non vuole tornare”, dove ad aspettarlo potrebbe esserci qualcuno di cui diffidare, severo, violento o chissà cos’altro. Così torna la maschera come concetto: quello che vedi è “quasi” quello che è.

zaches pinocchio
Foto Ufficio Stampa

Ed ecco ribaltata la morale collodiana, matrice irrinunciabile di questa epica che ormai molto facilmente rischia di suonare anacronistica e dunque innocua. Eppure è un tema che va trattato: «Ci abbiamo ragionato molto – racconta Enrica – su questa morale, dalla quale Collodi stesso sembra voler marcare una distanza, come dicendo: “questo è il modello ottocentesco, in cui io non credo”. Come dosare quell’ombra di morale con l’ironia? Come pronunciare oggi frasi come “l’ozio è una malattia”?». Perché sono passati più di cento anni, quella morale è forte come immaginario, ma sono mutate le condizioni in cui applicarla: allora la componente visiva e di atmosfera, tanto cupa, permette di trasfigurare alcuni grandi temi dentro una grande disciplina iconografica.

«Proprio in questo – riflette Enrica – Pinocchio ci ha aiutato molto: la distanza di cui parlavamo ha molto a che fare con l’estetica e la poetica del teatro di figura  che impone una separazione». E però per rendere fluida quella disciplina dell’immagine servirebbe la possibilità di rodarla, commento; «vero, ci sono grandi questioni tecniche come cambi d’abito vertiginosi, faticosi proprio fisicamente, che hanno purtroppo il potere di far arrivare un attore alla scena successiva senza più energie».
Di certo quella “contrainte”, quella “costrizione” produce qualità, avrebbe detto Copeau, ma le motivazioni alla base di certi salti mortali sono soprattutto economiche e produttive. «Sì, le cose ora come ora funzionano – ammettono gli Zaches. Andiamo un po’ all’estero (Russia, Spagna, Belgio  Germania, Danimarca, Pakistan, Iran, Serbia), abbiamo avuto modo di lavorare su commissione, trovando una grande apertura. Una grande soddisfazione, anche, ma non una migliorare condizione economica. In generale il teatro non è più sostenibile. Tanto che – aggiunge Luana – ormai ha più senso rilassarsi e prendersi maggior tempo per la creazione». E questo mi trova d’accordo.
Ad ogni modo, un grande piacere farlo notare, in questo caso simili sforzi non riescono a fiaccare la meraviglia che si prova, sugli applausi, nel veder sbucare dalle quinte solo tre attori: un Pinocchio e due altri corpi che, da sé, danno vita a: Fata Turchina, Gatto, Volpe, Mangiafuoco, Omino di Burro, Lucignolo, Assassini, Grillo Parlante e Becchino. Combinazione, però, tutti gli spettacoli di Zaches Teatro portano in scena tre corpi. «Forse perché sempre tre soldi ci danno».

Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982

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PINOCCHIO
liberamente ispirato a Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino di Carlo Collodi, dedicato al Maestro Nikolaj Karpov.
regia e drammaturgia Luana Gramegna
Scene, luci, costumi, maschere Francesco Givone
disegno sonoro Stefano Ciardi
con Alice De Marchi, Gianluca Gabriele, Enrica Zampetti
collaborazione alla drammaturgia Enrica Zampetti
consulenza drammaturgica Donatella Diamanti, Giorgio Testa
tecnico del suono Dylan Lorimer
realizzazione costumi Anna Filippi
promozione e organizzazione Elisabetta Scarin
una produzione Zaches Teatro 2013/2014
in co-produzione con Fondazione Sipario Toscana Onlus
con il sostegno della Regione Toscana, Kilowatt Festival e IMacelli di Certaldo.
un ringraziamento speciale a Panajota Roupaka e Claudio Lorimer.

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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